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lunedì 18 ottobre 2010

La storia. Amélie e il suo meraviglioso mondo


. Amélie il suo favoloso mondo non deve trovarlo nella fantasia o in un set cinematografico, ma si allunga colorato dietro a una doppia porta controllata da persone in camice e sormontata dalla scritta "Terapia intensiva neonatale", all'ospedale di Bolzano.
Già, perché l'Amélie trentina domani compie un anno e sarà un compleanno speciale perché esattamente 365 giorni fa era lunga appena 31 centimetri e pesava 660 grammi: uno scricciolo da seguire con tutte le precauzioni del caso per l'equipe ospedaliera diretta dal primario Hubert Messner. «La situazione - ricorda il dottore - era particolarmente preoccupante per le dimensioni della bambina. Casi del genere possono dare principio a complicazioni a livello polmonare, cardiaco o intestinale. E' necessario sottoporli a monitorizzazione continua, porsi degli obiettivi e sperare di raggiungerli».
Non è stato di certo un periodo facile per i genitori di Amélie, Micaela Ghiotti e Edoardo Borghini, già provati da una gravidanza non del tutto semplice. «Sapevamo - raccontano - della insufficienza placentaria, tanto che il parto è stata una decisione immediata che ci ha quasi colti all'improvviso».
«Proprio così - interviene sorridendo il dottor Hubert Messner - la nostra procedura in questi casi è abbastanza brusca. In realtà dobbiamo effettuare screening costanti per tentare di portare la gestazione il più avanti possibile. Certo che quando i dati ci indicano di intervenire con il cesareo dobbiamo partire immediatamente».
Da quel giorno, e per quasi due mesi e mezzo, inizia per Edoardo e Micaela un periodo nella più crudele delle altalene immaginabili. «Amélie non poteva essere considerata fuori pericolo e doveva rimanere nel reparto di terapia intensiva. Ogni giorno è stato difficile perché tutto viene vissuto al massimo dell'intensità e basta veramente pochissimo per farti sobbalzare il cuore. Una volta, per esempio, si è staccata da sola il tubo per la ventilazione e i dottori hanno provveduto immediatamente a ripristinarlo, ma è stato sufficiente a creare scompiglio e metterci in allarme».
E' in queste situazioni che umanamente ci si appiglia a qualsiasi mano ci venga tesa e la famiglia Borghini di palmi aperti, per fortuna, ne ha trovati tanti. «Il reparto di terapia intensiva è diventato per noi un'autentica famiglia. Passavamo qua le nostre ore, di giorno e di notte, con il cuore in mano e sensibili a ogni minima mutazione, così per 128 giorni, i primi due mesi a Bolzano e poi a Trento. Il personale ci ha confortato, spiegato e ci sono stati vicini anche più di quello che prescrive l'etica professionale. C'è una stanzetta dedicata esclusivamente al relax dei genitori all'interno del reparto e lì è capitato di prendere un caffè con medici e infermieri: lo spessore di certi discorsi che abbiamo fatto non si dimentica».
Oggi tutto torna alla mente con emozione: «Un altro grande pregio è di non averci mai nascosto la realtà: i genitori, in questi momenti, vivono con un'ansia spasmodica, ma hanno il bisogno di sentirsi informati pure sulle questioni negative. E' stato molto intenso, inoltre, l'incontro che abbiamo avuto con la mamma di Jonas, il grande prematuro che ha lasciato il reparto prima di Amélie: parlare con chi ha provato le tue stesse paure e sensazioni aiuta tantissimo».
Il primario Messner, intanto, fa un cenno di approvazione con la testa: «Noi abbiamo il dovere professionale di rimanere razionali e azzerare l'emotività quanto più possibile», afferma. «Al contempo, però, c'è la necessità di coinvolgere e capire i genitori: non è facile, ma è necessario farlo bene».
Abbastanza chiaro, dunque, come sgorghi facile un elenco di ringraziamenti: «Vorremmo dare un abbraccio - chiedono i coniugi Borghini - alle dottoresse Federica Verdi, Micaela Veneziano, Monica Braghetto, Elena e Cristina Pedron, Grazia Molinari, la caposala Silvana, la psicologa Roncarolo e, naturalmente, il primario Messner le infermiere e tutto lo staff. Spesso da fuori non ci si accorge che in terapia intensiva non ci sono solo bambini in un'incubatrice, ma delle creature che lottano per la vita, in una condizione che non esiste in natura. Il lavoro che viene fatto qui dentro è incredibile». Non è un caso, quindi, che per Amélie siano tutti degli zii da venire a salutare in occasione delle visite. «E' gratificante - spiega Messner - quando vediamo tornare i "nostri" bimbi. A volte capita che vengano anche dopo vent'anni per vedere il luogo dove hanno passato i primi giorni di vita. Per noi è sempre un'emozione. Io dico sempre, anche nelle situazioni critiche, che sono sempre le creature a scegliere che strada intendono prendere».
Amélie, a quanto pare, la sua scelta l'ha fatta in modo chiaro e a giudicare da come sorride alla macchina fotografica del nostro fotografo chissà che non abbia già optato per la futura professione.
Alan Conti

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