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mercoledì 11 settembre 2013

"Senza passaporto addio lavoro...a me servono tredici anni"

Carolina arriva da Cali in Colombia, a 15 anni ha messo la prima volta piede in Italia, da 11 abita nel Belpaese a Bolzano e da tempo assiste gli anziani come Osa, operatrice socio assistenziale. Qualche anno fa si sposa con un italiano da cui ha un figlio, italiano: avrebbe già il requisito per chiedere la cittadinanza, ma decide di aspettare il decennio di residenza per rispetto, forse anche per non sentirsi dire di approfittarsene. Poi arriva la separazione, fa parte della vita, ma Carolina a maggior ragione deve attendere i famosi dieci anni: lo fa e presenta la documentazione. Dall'apertura della pratica alla cittadinanza vera e propria, le dicono, passano almeno due o tre anni. Due o tre anni: che ci dovranno fare con le pratiche di chi non è svedese in lista Svp è tutto da capire. "Sono i tempi tecnici" rispondono, ma qui si nasconde un problema grande come una casa: Carolina opera nell'assistenziale come precettata con rinnovo di anno in anno e i tagli annunciati porteranno a una mancata conferma. Più per crisi che per convinzione. Il bello è che l'azienda sanitaria la terrebbe per professionalità e capacità cercando di recuperarla attraverso i concorsi che, ohibó, non possono essere affrontati senza cittadinanza.
"Purtroppo è così - conferma in un italiano perfetto - perchè il sistema del precetto non mi potrà essere rinnovato ad ottobre e io mi trovo la strada totalmente sbarrata. In Colombia ero infermiera diplomata, ma qui chiaramente il titolo non viene riconosciuto. Poco male: mi sono tirata sù le maniche e ho seguito corsi di aggiornamento e professionalizzazione. Parlando tedesco con i pazienti sono riuscita anche a centrare l'obiettivo patentino, poi la pratica ha fatto tutto il resto. Non posso parlare male dell'Assb perchè mi ha messo nelle condizioni di lavorare e migliorare, ma ora non possono continuare con le chiamate così mi trovo bloccata".
Ergo questa donna colombiana ha tutti i requisiti professionali per tentare una regolarizzazione occupazionale e più di un criterio valido per ottenere la cittadinanza, ma deve fare i conti con la perdita di un lavoro che sa fare bene mentre deve mantenere un figlio italiano a tutto tondo. "E' proprio così: virtualmente non ho nulla che osti al mio essere italiana, però devo attendere i tempi tecnici". Un paradosso e un'ansia economica probabilmente sconosciuta a una top manager d'azienda. "Ho dovuto vendere casa per far fronte al periodo senza lavoro che arriverà: ora siamo in un monolocale, ma fa nulla. Sono la prima a dire che gli aiuti vanno dati prima ai cittadini italiani. Mio figlio, però, rischia di pagare in prima persona questa situazione paradossale e mi dispiace. Dopo così tanto tempo, oltretutto, persino in Colombia ci sentono come stranieri. Tutto questo sembra ancora pià deprimente se rapportato alla velocità con cui hanno regolarizzato la candidata della Svp". Fuori taccuino, però, nessun attacco a Maria Mäwe: "Non ce l'ho con lei per carità - dice - magari è una bravissima persona e trovo giusto cerchi di crearsi una propria strada politica. Se esistono delle regole e delle prassi, però, mi piacerebbe fossero identiche per tutti". Per inciso la bionda rocker svedese ha atteso appena sette anni per il passaporto ed è la matematica a smentire la favola di un disinteresse politico nel fare veloce. Candidarsi per la Stella Alpina e garantirsi un lavoro di assistenza apprezzato per mantenere un figlio: la lista delle priorità di chi preme l'acceleratore nella nostra terra fa spavento. O tristezza.

Alan Conti

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